Racconto fotografico (4)

E’ una fotografa?
Lei si voltò infastidita da quella
voce.
Come due laghi sotto il sole di
mezzogiorno quegli occhi la guardavano senza vedere niente.
Non vedevano il desiderio che lei aveva
di essere lasciata in pace.
Non la crepa di aver rotto e interrotto
un silenzio.
E assolutamente non riuscivano a
cogliere quello spazio che si era creata intorno, una bolla
protettiva inaccessibile ai più, visibile forse per i più
sentimentali, dichiaratamente chiara a chi poteva avere una
sensibilità più profonda dell’animo umano.
Certamente fraintesa da chi pensava,
invece, di conoscerlo l’animo umano.
Mentre era lì a guardare la forma che
aveva dato corpo a quella voce con l’indifferenza che giocava allo
slittamento tra realtà e fantasia, tra verità e sogno si accorse di
quanto fosse interessante la sua bocca, leggermente celata da un una
leggera barba che nei fili bianchi del suo contorno rivelava l’età
non più giovane dell’uomo.
I riflessi della vetrina come specchi
misteriosi e persistenti, fasci ondulatori nella frenesia della
città, non riuscivano a nascondere la varietà di macchine
fotografiche, usate e d’epoca, che facevano sfarzo di sé per gli
sguardi e gli appetiti che affogavano, nell’immagine agognata, idee e
fame di bellezza.
Piccoli scaffali ospitavano i desideri
di fotografi in preda ai deliri allucinatori di scatti unici e mai
realizzati.
Si fermava spesso davanti a quella
vetrina e altrettanto spesso entrava anche soltanto per la gioia e la
soddisfazione, se non l’emozione, di tenere in mano, con la cura di
un gioiello, alcune di quelle macchine. Quelle a soffietto le davano
una strana estasi. Le sembrava di essere catapultata nella storia e
nel passato, la affascinavano come gli intrecci dei vecchi merletti e
mostrava per esse una devozione quasi sacrale. Il toccarle le dava
poesia. Soprattutto se chiudeva gli occhi, era allora che universi
immaginari attraversavano i suoi pensieri, seducendola.
In quel momento non sapeva ancora che
ne avrebbe acquistata una. Proprio quella mattina. Al ritorno dalla
sua passeggiata estiva.
Proprio quella mattina di luce mitigata
da un sole imbiancato che aveva fatto del suo pallore la magica
essenza degli inspiegabili significati della vita.
Quella mattina che allacciava e
scioglieva insieme il profilo riflesso di quell’uomo che continuava a
stare lì, vicino a lei, con lo sguardo che adesso volgeva là dove
era diretto il suo pensiero.
Rimasero a lungo in silenzio davanti
alla vetrina.
Non seppe calcolare esattamente il
tempo, sapeva soltanto che la sua fantasia correva insieme a quella
di lui verso i momenti quieti della tenerezza, nei valzer amorosi
della premura e delle carezze arrendevoli.
Attimi che si dilatavano nella
collezione delle sensazioni. Come due visioni di trasparenze senza
confini, i loro corpi si lanciavano attraverso il vetro come
nell’illusione di un viaggio nel tempo. La luce li faceva ricadere
dentro quasi a toccarsi, li rendeva indistinti. I loro contorni si
sovrapponevano, si intercalavano, si sfumavano l’uno nell’altro,
davano l’immagine fluida di oleosi abbracci.
Fu in quel momento che la stola di seta
che velava le sue spalle scivolò giù sul marciapiede.
Fu il caso o il gesto che la
riportarono alla realtà.
Lo guardò nell’azzurro di quei laghi,
poi con lo slancio di una ginnasta rientrò nella sua bolla e, con la
fronte che si imperlava di costrizione e rinuncia, prima di
incamminarsi di nuovo gli rispose con un tono di voce appena
accennato: Sa, dipende soltanto dai punti di vista.
© Paola Camiciottoli

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